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L'arrampicata e l'arte di condividere un sogno

Vi raccontiamo la storia del primo 8c italiano, dei suoi primi trent’anni di vita e del seme di una passione condivisa e trasmessa di padre in figlio.

21 Aprile 2022

Arrampicata

L’Arte di salire in alto e i suoi primi trent’anni

L’arte di salire in alto. Un nome che è perfetta metafora di un certo modo di intendere l’arrampicata, un’arte da coltivare con determinazione, passione e pazienza. 

Lo sa bene Rolando Larcher che questa linea, chiodata a metà anni ottanta nella falesia di Celva a Trento da Angelo Giovannetti Roberto Tavonatti, l’ha salita per primo trent’anni fa, era il 19 gennaio 1992. Fu il primo 8c liberato in Italia. 

E lo sa bene anche Alessandro Larcher, classe 1999, che il 19 gennaio del 2022, ha ripetuto a distanza di trent’anni la via liberata da suo papà mosso da un’identica passione condivisa tra padre e figlio. 

Alessandro studia medicina, l’arrampicata per lui è una passione e non un lavoro. Il ragazzo scala davvero forte e nel 2019 ha salito il suo primo 9a al Pueblo nella storica falesia di Massone ad Arco, un altro luogo verticale dove suo padre ha scritto un pezzo di storia dell’arrampicata sportiva.

Ma torniamo indietro di trent’anni. Siamo sul finire degli anni ottanta. Rolando si avvicina a questa linea,disegnata su uno scudo di roccia grigia solcato da tacche appena accennate e gocce invisibili, dove un sapiente uso dei piedi è la prima arma da sfoderare, grazie alla spinta di un altro padre dell’arrampicata sportiva Bruno Tassi Camós che sulle placche di Cornalba nelle valli bergamasche in quel giro d’anni stava già chiodando e liberando  linee di riferimento per il nostro sport. 

Camós è a Trento per lavorare con Giovanni Groaz, altro instancabile chiodatore al quale dobbiamo tante perle verticali della valle del Sarca. È Giovanni a portarlo a scalare a Celva. Quella linea futuristica, che era ancora un progetto, non sfugge a Camós che decide di provarla e suggerisce a Rolando di dedicarle tempo.

“Da quel momento - ci racconta Rolando con la luce negli occhi di chi sente ancora sotto le dita quelle prese sfuggenti - mi sono dedicato con tutto me stesso a quel progetto. C’è voluto tempo, pazienza, dedizione per mettere insieme tutti i singoli, poi è arrivata anche la necessaria continuità su quei passaggi che all’inizio mi sembravano quasi impossibili!"

È il 1992. Rolando ha 26 anni quando libera L’arte di salire in alto e a lui tocca l’onore di darle il nome che oggi tutti conosciamo. 

Sono un paio di pantacollant, tanto di moda in quegli anni tra i climber e l’amore per la cultura giapponese della guida alpina e monaco zen Gigi Mario, da poco scomparso e che tanto ha lasciato in eredità all’arrampicata sportiva e alla sua storia,  a scandire la genesi del nome scelto per il primo 8c italiano.

L’arte di salire in alto è infatti la traduzione dal giapponese fatta da Gigi della scritta stampata su un paio di pantacollant indossati da Rolando nei suoi tentativi. A fargli sicura spesso era suo padre Renato, così come oggi all’altro capo della corda di Alessandro c’è lui in veste di compagno di cordata. Un seme, la passione per la montagna, che si tramanda da tre generazioni in casa Larcher.  Tout se tient. È quel filo rosso dentro ad ogni storia che amo cercare a restituirci frammenti del passato che così bene si incastrano l’uno all’altro nel puzzle dell’arrampicata e della sua storia.

Celva 2022. Una linea d’altri tempi e il suo fascino senza tempo 

Il 2022 ed il suo inverno scandito da terse giornate di sole, ha segnato un rinnovato amore per questa via che incarna una scalata d’altri tempi. 

Tanti climber si sono misurati con lei e se pensiamo che per la prima ripetizione L’arte di salire in alto ha atteso dieci anni, era il 2002, e due arrampicatori del calibro di Maurizio Zanolla  Manolo e Riccardo Scarian, questo inverno del suo trentennale ha dell’incredibile.

L’arrampicata su placca è del resto un’arte da non sottovalutare e che ancora può regalare tanto a chi ha voglia di confrontarsi con lei.

Servono arte e pazienza. Serve un dialogo più fitto con la roccia. Serve fiducia perché la potenza del bicipite qui conta poco. Servono testa e cuore. 

Serve arrampicare fino all’ultima sfuggente presa per tirare un sospiro di sollievo e passare la corda in catena.

 

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