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Federica Mingolla - Una risata su un vuoto da vertigine

Dalla palestra di arrampicata sotto casa al Verdon, tutto in una manciata di anni. E con la voglia di andare avanti ed esplorare tutte le dimensioni dell’arrampicata

6 Febbraio 2015

Arrampicata

Federica Mingolla

Chi non la conosceva deve aver fatto un balzo sulla sedia, dopo aver sentito della sua ripetizione di Tom et je ris, il capolavoro realizzato nel 2008 da Bruno Clément sulla Rivière gauche delle Gorges du Verdon, una linea di 60 metri valutata 8b+ e sospesa su un vuoto da vertigine. Ma Federica Mingolla, torinese, vent’anni compiuti da poco, una delle giovani scalatrici italiane più forti e dotate, non se la tira affatto, anzi sembra persino stupita dal clamore suscitato dalla sua salita dello scorso ottobre. Prima di lei, tra gli italiani, ci erano riusciti solo Jacopo Larcher e Andrea Polo, ma per la climber piemontese la vicenda non passa attraverso il filtro delle classifiche. E ha ragione, perché si tratta anche di un traguardo personale importante. Tanto più se si pensa che Federica arrampica solo da cinque, sei anni.

«La roccia l’ho avvicinata da piccola, con le mie sorelle, a cinque, sei anni. Era un gioco, e mio padre ci faceva provare qualche passaggino, che noi salivamo con gli scarponcini. Poi, per undici anni, ho praticato il nuoto agonistico. Solo quello, e forse qualche passeggiata in montagna. Finché ho scoperto che vicino a casa mia c’era una palestra per l’arrampicata indoor. Mia sorella aveva cominciato a frequentarla con la scuola e si era iscritta a un corso propedeutico. Diceva che era una cosa divertente, e così ho voluto provare anch’io. La prima volta, mentre ero impegnata su uno dei muri della palestra, un allenatore mi ha visto e mi ha chiesto da quanto tempo arrampicavo. Quando ha scoperto che quello era il mio debutto, è rimasto stupito e mi ha invitato a frequentare un corso regolare. Era il 2009. Sulle prime non sapevo cosa dire: ci ho pensato su e alla fine ho accettato. E così ho cominciato ad arrampicare con la società sportiva Sasp, che mi ha permesso di avere una preparazione adeguata». 

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E le gare?
«Ho cominciato presto, quasi subito, mi hanno trascinato i compagni, dicevano che erano una bella cosa. E così ho partecipato alle competizioni giovanili, prima ai macroregionali, poi agli italiani, e due anni dopo ho preso parte alla Coppa Italia senior. Intanto, con la supervisione del mio allenatore alla Sasp, ho migliorato il mio stile e la mia progressione in arrampicata. Un paio d’anni dopo facevo già il 7b di corda, per dire. Poi ho avuto un momento di stasi, e per un breve periodo mi sono fatta consigliare da Stefano Ghisolfi su come allenarmi. Poi Donato Lella mi ha preso sotto la sua ala e, nel giro di qualche mese, ho ottenuto dei risultati importanti: sono riuscita ad arrivare in finale in Coppa Italia, a salire sul podio, e ad arrivare seconda. Tutto nello stesso anno, il 2013».

Non abbiamo ancora parlato della roccia…
«Mi ci sono dedicata di più nel 2014, trascurando un po’ le gare. Per la verità la falesia l’ho cominciata seriamente due anni fa. Di tanto in tanto saltavo gli allenamenti indoor per andare a scalare fuori, cosa che non faceva molto piacere al mio allenatore. Ma arrampicare all’aperto per me è un’esperienza irresistibile, avevo voglia di uscire e mettermi alla prova sulla roccia».
E il tuo spirito di competizione, dove è andato a finire?
«Non sono molto competitiva nei confronti degli altri; lo sono invece verso me stessa: se decido di chiudere un tiro duro, lo provo in competizione con me stessa. In gara, invece, a volte prendo le cose un tantino alla leggera. E comunque, due anni fa, sono riuscita a fare un passaggio di grado: sono passata dal 7c, 8a lavorato all’8b, 8b+. Sembra poco, ma è stato un passaggio difficile, come dire dal 6b al 7a. Un salto importante».

Ti sei accorta subito delle tue doti in arrampicata? All’inizio eri consapevole di essere più brava di tanti altri?
«È una percezione che non ho mai avuto: ho  sempre arrampicato solo per passione. Mi sono trovata a muovermi sulle difficoltà, ad escogitare un modo di passare sui tratti duri, solo perché mi piaceva. Quello che per me ha sempre avuto importanza è il risultato personale, più che il piazzamento in gara, e le emozioni che puoi provare salendo una via, che non cambierei mai con un podio. Ho cominciato a fare gare solo perché il mio ragazzo le faceva, e così ho voluto provare anch’io. Però mi sono sempre piaciute molto le cose nuove, e da questo punto di vista volete mettere la falesia? La roccia vera per me è stata una rivelazione, mi ha fatto riscoprire l’arrampicata».

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Quando cerchi un risultato – una via difficile, un passaggio particolare – come ti comporti?
Ci penso spessissimo, l’obiettivo diventa un pensiero costante: lo visualizzo mentalmente, mi concentro, mi ripasso la via nella testa, guardo in continuazione dei video. Prendiamo ad esempio la vicenda del Verdon: mi sono vista almeno un centinaio di volte il video di Monique Forestier, che è stata la seconda a ripetere la via. E l’ho fatto non tanto per capire i movimenti, ma perché quella storia mi stimolava tantissimo e dentro di me faceva scattare una molla importante. Mi veniva voglia di andare in Verdon e di provare quel tiro.

Com’è di solito la tua giornata?
Sono al secondo anno di università, frequento la facoltà di Scienze motorie, dove le lezioni sono quasi sempre la mattina, dalle 8.30 alle 14, poi mi alleno in palestra, alleno dei ragazzini al B Side, a Torino. Nel periodo di esami studio molto. Ma per fortuna ho anche una vita sociale

I tuoi riferimenti culturali?
La musica? Tutta, indistintamente. Ho anche suonato la chitarra per sette anni. Poi leggo: mi piacciono i libri di Ken Follett, un pochino anche la fantascienza, ma senza esagerare; e meno di una volta, perché la sera mi ritrovo sempre molto stanca e poi devo pure studiare. Invece non sono particolarmente tecnologica: sono una che, per dire, si compra il cellulare usato di un amico; poi, certo, capita anche a me di usare i social, però non passo il mio tempo con il cellulare all’orecchio. 

Sei una multitasking per natura…
Adoro fare un sacco di cose, sono iperattiva.

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E la montagna? Ci hai mai pensato?
Ho fatto dei trekking con mio padre, qualche ferrata. Da bambina avevo paura dell’esposizione, ora non più. Mi piace lo scialpinismo, non ho mai smesso. Ho cominciato a sciare da piccolissima, con mio padre, e ho sempre continuato. Poi mi piace tantissimo viaggiare.

Il posto più lontano in cui hai scalato?
Il più lontano? Singapore; il più selvaggio, invece, il Vallone di Unghiasse, in Val Grande di Lanzo.

Quali sono i siti di scalata in cui ti senti a casa?
Kalymnos, un posto stupendo, con vie lunghe, di resistenza. Mi basta chiudere gli occhi per ritrovarmelo davanti e sentire il rumore del mare. Vicino a casa, mi sento a mio agio ovunque. Il Verdon mi ha colpito molto, ma lì ho scalato solo Tom et je ris, e ci sono rimasta quattro giorni in tutto. Ma voglio tornarci, e scalare vie lunghe. Prima di quel momento il Verdon non lo avevo mai visto.

Ti ha impressionato?
Non particolarmente, ma non me lo figuravo tanto strapiombante: mi sono affacciata sulla via, ma dall’alto non riuscivo a scorgere l’attacco: per vederlo mi sono dovuta calare con la corda. C’è stato anche un momento in cui, appesa alla corda, nel vuoto, non riuscivo a comunicare con i compagni.

E l’arrampicata sui blocchi?
Mi piace molto. A Novalesa, ad esempio, c’è un blocco alto 10 metri, di 7c+, e prossimamente vorrei salirlo. Il sito è stato aperto da poco, e mi piacerebbe frequentarlo. Poi mi è piaciuta molto l’esperienza del Melloblocco: l’anno scorso ho salito cinque blocchi gara e mi hanno anche chiamato sul palco, e poi il posto è davvero stupendo, mi ha entusiasmato.

Due parole sulle vie che ritieni più belle, e non necessariamente le più dure…
Direi un certo 8a+ al settore Red Up, ad Albenga Poi la via Quarto potere a Campambiardo: non per l’estetica del posto, ma proprio solo per i movimenti della scalata. Poi, ovviamente, Tom et je ris in Verdon. E infine parecchie vie di Kalymnos, ma soprattutto una, vicino alla Grande grotta, un pochino più a destra, Punto Caramelo, un 8a+ che ho salito al tramonto ed è stata uno spettacolo.

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Ti piacerebbe imparare ad attrezzare qualche via?

Di recente una guida alpina, un amico, mi ha fatto provare a chiodare, usando i cliff. Voglio provarci di nuovo. Dev’essere proprio bello, quando ti ritrovi di fronte un parete di roccia che ti piace, riuscire a modellarci su una via….

E l’idea dell’arrampicata sportiva in montagna?
È un mio obiettivo, ogni tanto ci penso. Come penso anche a un futuro come guida alpina. Chissà.… Non molto tempo fa ho fatto un po’ di dry tooling, e con le picche mi sono trovata benissimo. E adesso voglio provare con le cascate ghiacciate.

Quanto ti alleni?
Se faccio corda, tre, quattro ore al giorno. Se sto in palestra, sui muri bassi, e faccio preparazione muscolare, due ore e mezza, tre.

Vorresti assomigliare a qualcuno? Hai qualche mito tra gli arrampicatori?
Non ci ho mai pensato. Forse qualcuno che frequentava la palestra. Sto cominciando solo ora a interessarmi della storia dell’arrampicata sportiva. Conosco i ragazzi della mia età, e poi Luisa Iovane. Jenny Lavarda, Adam Ondra, Manolo…

I tuoi sponsor?
Per me sono stati fondamentali, hanno costituito uno stimolo a migliorarmi. Devo ringraziarli davvero.